Come muore una democrazia
Per accorgersi della transizione all’autoritarismo bisogna misurare il prezzo dell’opposizione. Gli Stati Uniti hanno già oltrepassato la linea
Come ci si accorge di aver superato la linea che ci separa dall’autoritarismo?
La domanda non riguarda solo gli Stati Uniti, ma ogni democrazia contemporanea in cui leadership autocratiche e movimenti populisti erodono le istituzioni dall’interno e dall’esterno, in contesti segnati da una crescente polarizzazione politica, economica e sociale.
In un articolo pubblicato sul New York Times venerdì scorso, Steven Levitsky (Harvard), Lucan Way (University of Toronto) e Daniel Ziblatt (Harvard) spiegano in che modo possiamo renderci conto di aver perso, o di stare perdendo, la democrazia. Gli autori sono tra i massimi esperti internazionali di autoritarismo, e hanno scritto opere preziose per comprendere il nostro tempo, come How Democracies Die (pubblicato in italiano da Laterza) e Competitive Authoritarianism (che purtroppo non è stato ancora tradotto).
Il loro intervento merita di circolare anche nel dibattito italiano — uno dei più vulnerabili dell’Europa occidentale alle suggestioni autoritarie e all’erosione della fiducia nelle istituzioni. Anche a causa della massiccia infusione di propaganda populista, spesso amplificata da attori esterni al nostro Paese.
In questo post propongo una selezione di estratti, accompagnati da alcuni miei commenti per contestualizzare le tesi degli autori, anche alla luce di episodi recenti negli Stati Uniti e in Europa.
L’autoritarismo è più difficile da riconoscere di un tempo. La maggior parte degli autocrati del ventunesimo secolo arriva al potere attraverso elezioni. Invece di reprimere l’opposizione con la violenza, gli autocrati contemporanei trasformano le istituzioni dello Stato in armi politiche, usando il sistema giudiziario e le forze dell’ordine, il fisco e gli enti regolatori per punire gli oppositori e spingere ai margini i media e la società civile. Levitsky, Way e Ziblatt definiscono questo modello di governance come “autoritarismo competitivo”: un sistema in cui i partiti di opposizione possono presentarsi alle elezioni, ma l’abuso sistematico del potere da parte del governo in carica altera profondamente le regole del gioco. Le istituzioni non sono più imparziali, e la competizione elettorale non è più equa. È questo il modello di governo che osserviamo in paesi come Ungheria, India, Serbia e Turchia.
La discesa verso l’autoritarismo competitivo non fa scattare automaticamente campanelli d’allarme. I cittadini spesso non si accorgono di essere governati da un regime autoritario, perché gli attacchi contro i nemici politici avvengono attraverso strumenti apparentemente legali, come cause per diffamazione, ispezioni fiscali e inchieste giudiziarie.
Come si riconosce, allora, il momento in cui la democrazia cede il passo all’autoritarismo? Gli autori propongono un criterio semplice ed efficace: misurare il costo dell’opposizione. In una democrazia, i cittadini non vengono puniti per l’opposizione pacifica a chi detiene il potere. Possono pubblicare opinioni critiche sui media (compresi i social media), sostenere candidati di opposizione e protestare in modo non violento senza temere ritorsioni.
In un regime autoritario, invece, l’opposizione ha un prezzo. Cittadini e organizzazioni che si espongono diventano bersagli di misure punitive. I politici possono essere indagati e processati sulla base di accuse infondate o pretestuose. I media possono subire cause per diffamazione o decisioni regolatorie ostili. Le imprese possono essere sottoposte a controlli fiscali o escluse da contratti e appalti critici per la loro sopravvivenza. Le università e altre istituzioni della società civile possono essere private di finanziamenti statali o perdere le esenzioni fiscali. I giornalisti, gli attivisti e chiunque critichi il governo a qualunque titolo possono essere minacciati, molestati o perfino aggrediti fisicamente dai sostenitori del governo.
Se i cittadini devono pensarci due volte prima di criticare il governo, perché sanno che dovranno affrontare una rappresaglia, allora hanno smesso già di vivere in una democrazia vera e propria.
Gli Stati Uniti hanno già oltrepassato la linea
Chi segue le cronache americane sa che tutte queste condizioni si sono già verificate. L’amministrazione Trump ha intrapreso — o minacciato credibilmente — azioni punitive contro un numero sorprendentemente ampio di individui e organizzazioni considerati oppositori.
Per esempio, Trump ha ordinato al Dipartimento di Giustizia di aprire indagini su Christopher Krebs (che, da capo dell’agenzia per la sicurezza informatica, aveva smentito pubblicamente le false accuse di brogli nel 2020) e su Miles Taylor (funzionario del Dipartimento per la sicurezza interna e autore anonimo di un editoriale critico nel 2018).
Ha inoltre avviato un’indagine penale contro Letitia James, procuratrice generale dello Stato di New York, che aveva intentato una causa contro Trump nel 2022.
L’amministrazione ha anche colpito importanti studi legali, vietando di fatto al governo federale di avvalersi di realtà come Perkins Coie e Paul, Weiss, ritenute vicine ai Democratici. Ha minacciato i loro clienti con la revoca dei contratti pubblici e sospeso le autorizzazioni di sicurezza dei dipendenti, impedendo loro di lavorare su casi federali.
L’aspetto più inquietante di questo passaggio non è solo l’uso del potere esecutivo per colpire avversari politici, ma la sua normalizzazione. In un sistema democratico sano, l’idea che un presidente possa ordinare indagini penali contro i propri critici dovrebbe suscitare una reazione immediata e unanime. Se ciò non accade, o accade tardi, o solo da parte dell’opposizione, significa che la soppressione della libertà di critica è già stata interiorizzata da una parte della società. In quel momento, la cultura democratica si incrina in modo decisivo.
Non accade solo negli Stati Uniti. In Ungheria, Turchia ed El Salvador, leader come Orbán, Erdoğan e Bukele seguono uno schema molto simile: il potere esecutivo si appropria delle istituzioni (polizia, magistratura, agenzie fiscali) per intimidire o neutralizzare il dissenso.
Le immagini dell’incontro molto amichevole nello Studio Ovale tra Trump e Bukele – in cui il presidente ha affermato di voler deportare anche cittadini americani nelle carceri salvadoregne – sono emblematiche e rivelatrici dell’affinità non solo umana, ma anche politica valoriale tra i due leader. Soprattutto se confrontante con le immagini di un altro celebre (e ignobile) incontro nella stessa stanza: quello tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy.
Anche in paesi come l’Italia, dove i meccanismi di controllo democratico sono ancora attivi, è legittimo chiedersi: quanto ci metteremmo ad abituarci all’idea che chi critica il governo venga punito — non con la censura diretta, ma con controlli fiscali selettivi, tagli a contratti pubblici, campagne di delegittimazione, azioni legali intimidatorie?
L’Italia non è l’Ungheria, né la Turchia. Eppure, la nostra disponibilità ad accettare l’erosione delle regole democratiche sembra sorprendentemente precoce e ampia.
Lo abbiamo visto quando un premier ha definito i magistrati “cancro della democrazia” e ha cercato ripetutamente di sottrarsi al giudizio penale, con il plauso di metà del Parlamento e dell’elettorato. O quando il governo gialloverde ha proposto il vincolo di mandato per i parlamentari, e gran parte dell’opinione pubblica ha reagito con indifferenza.
La nostra cultura democratica è più fragile di quanto crediamo, e l’idea che “da noi certe cose non possano succedere” è, oggi, una delle illusioni più pericolose.
L’intimidazione e l’autocensura
Come altri regimi autoritari, anche l’amministrazione Trump ha preso di mira i media. Per esempio, ha intentato cause legali contro ABC News, CBS News, Meta, Simon & Schuster e il Des Moines Register. Le basi giuridiche di queste azioni sono deboli, ma l’obiettivo non è vincere in tribunale. Il vero scopo è intimidire e scoraggiare.
Una causa, anche infondata, può significare anni di spese legali, pressioni sugli investitori, ritorsioni su altri rami dell’impresa. L’effetto è il silenzio selettivo e l’autocensura prudenziale. Se un giornalista espone la testata a dei rischi, viene allontanato. Chi ha una reputazione di indipendenza non viene assunto.
Nel 2023, l’Unione Europea ha riconosciuto la pericolosità di queste azioni e ha approvato una direttiva anti-SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation) per proteggere giornalisti, attivisti e ONG da cause legali abusive promosse da politici o grandi aziende. È una misura fondamentale per difendere la libertà di stampa e di critica, che ancora una volta ci ricorda che l’Europa va difesa non solo come spazio economico, ma come argine democratico contro l’autoritarismo dilagante.
Le misure punitive contro le università hanno la stessa funzione intimidatoria delle azioni legali contro i media.
Il Dipartimento dell’Istruzione ha aperto indagini su almeno 52 atenei per la loro partecipazione a programmi su diversità, equità e inclusione, e ha messo circa 60 università sotto inchiesta per presunti episodi di antisemitismo, minacciandole con sanzioni pesanti.
L’amministrazione ha inoltre sospeso illegalmente centinaia di milioni di dollari in finanziamenti già approvati per istituzioni come Brown, Columbia e Princeton. Ha congelato 2,2 miliardi di dollari in sovvenzioni pubbliche destinate a Harvard, chiesto all’agenzia delle entrate (IRS) di revocare il suo status di ente esente da imposte, e minacciato di escluderla dal programma federale per l’ammissione di studenti stranieri.
Il messaggio è chiaro: se un’università promuove o tollera idee sgradite al governo, perderà i suoi principali mezzi di sopravvivenza.
Gli effetti sono prevedibili. Se un corso, una ricerca o una conferenza mettono a rischio i finanziamenti, gli atenei eviteranno di assumere docenti critici, o licenzieranno chi si espone, e adotteranno gli stessi criteri anche nella selezione degli studenti.
È questa l’essenza della lettera inviata a Harvard dall’amministrazione Trump, che chiedeva esplicitamente di controllare la gestione del personale, i temi di ricerca e la didattica. Che la Casa Bianca intenda usare l’agenzia delle entrate — un’istituzione che in una democrazia dovrebbe essere imparziale — per colpire un’università sgradita, è in sé un segnale inequivocabile.
La repressione della libertà di espressione va ben oltre i media tradizionali. Con il piano Catch and Revoke, l’amministrazione Trump intende schedare i profili social degli immigrati con l’uso dell’intelligenza artificiale, per valutare le loro opinioni politiche e decidere se revocare loro il permesso di soggiorno o la residenza permanente. Nel caso, l’espulsione potrebbe scattare anche solo per un contenuto pubblicato online.
Come accade per le deportazioni — che Trump e la ministra della giustizia Pam Bondi non escludono di estendere ai cittadini americani sgraditi — anche questa misura potrebbe facilmente allargarsi a chiunque. Lo scopo è sempre lo stesso: alimentare la paura di esprimersi, anche sui social, e svuotare la vita pubblica di ogni partecipazione civica. In un simile contesto, uno studente o un docente universitario che volessero esprimere opinioni critiche sui social media rischierebbero sanzioni disciplinari, licenziamento o espulsione.
Secondo la metrica proposta da Levitsky, Way e Ziblatt, siamo già ben oltre la linea di separazione dall’autoritarismo competitivo: la democrazia non è formalmente abolita, ma l’opposizione ha un prezzo altissimo.
Siamo lontani dai livelli di repressione delle dittature come la Russia — dove i critici del regime vengono incarcerati, esiliati o uccisi — ma gli Stati Uniti stanno vivendo, con una rapidità impressionante, una trasformazione profonda: chi si oppone al governo ha paura. Paura di indagini penali, cause civili, controlli fiscali: ritorsioni che possono rovinare la vita propria e dei propri cari.
Perfino i politici repubblicani, come ha dichiarato un ex funzionario dell’amministrazione Trump, sono “terrorizzati”: “fuori di sé dalla paura per le minacce di morte” che ricevono ogni volta che si suppone vogliano opporsi al presidente.
Gli americani stanno già vivendo sotto un nuovo regime. La vera domanda, ora, è se permetteranno che questo regime metta radici. Finora, la risposta della società americana all’offensiva autoritaria è stata deludente in modo allarmante.
I leader politici e della società civile si trovano davanti a un classico problema di azione collettiva. La grande maggioranza di politici, dirigenti d’impresa, soci di studi legali, direttori di giornali e rettori universitari preferisce vivere in una democrazia e vorrebbe porre fine a questi abusi. Ma, presi singolarmente e messi di fronte alle minacce del governo, hanno ogni interesse ad adeguarsi, piuttosto che opporsi, per proteggere le loro organizzazioni.
Questa è la logica fatale dell’appeasement: l’illusione che, cedendo in silenzio, in modo graduale e temporaneo, si possano evitare danni peggiori nel lungo periodo.
Quasi mai è così.
Gli atti individuali di autoconservazione hanno costi collettivi enormi. L’acquiescenza incoraggia il governo a spingersi oltre e colpire gli oppositori in modo più duro e sistematico. Le autocrazie raramente si consolidano solo con la forza: si rafforzano grazie alla complicità passiva, alla rinuncia alla responsabilità e all’inerzia di chi avrebbe potuto resistere. Come avvertiva Churchill, l’appeasement è come dare da mangiare a un coccodrillo sperando di essere l’ultimo a essere divorato.
Se il ritiro di un singolo studio legale o finanziatore può sembrare irrilevante, il ritiro collettivo lascia l’opposizione senza risorse, senza protezioni e senza voce. Ogni articolo non pubblicato, ogni discorso non pronunciato, ogni conferenza cancellata erode lentamente la democrazia. Quando l’opposizione finge di essere morta, è quasi sempre il governo a vincere. E soprattutto: l’acquiescenza dei leader più visibili manda un messaggio devastante alla società. Dice che la democrazia non vale la pena di essere difesa. O, peggio, che resistere è inutile.
Il messaggio di Levitsky, Way e Ziblatt non riguarda solo l’America.
Le democrazie del vecchio continente sembrano oggi più solide di quella americana, ma sono esposte agli stessi rischi. L’Europa, con tutti i suoi limiti, resta uno degli ultimi argini istituzionali e culturali contro l’autoritarismo dilagante.
Ma le istituzioni non si autoalimentano: per funzionare, hanno bisogno di essere sostenute da persone e comunità disposte a sopportare dei costi per difenderle. Di un’opinione pubblica consapevole, una società civile vigile, e cittadini capaci di riconoscere i segnali prima che sia troppo tardi.
In Italia, dove le simpatie autoritarie non sono mai del tutto scomparse, questi segnali rischiano spesso di essere ignorati, minimizzati o perfino normalizzati.
—
Nota: questo post non è una traduzione letterale dell’articolo di Levitsky, Way e Ziblatt. Come precisato in apertura, si tratta della presentazione di alcuni estratti, accompagnati da commenti personali e riferimenti a episodi recenti riguardanti gli Stati Uniti e l’Europa.
Come sono purtroppo costretto a ricordare, non autorizzo la riproduzione, nemmeno parziale, né la rielaborazione dei miei testi. Questo vale anche nei casi in cui, al termine del copia-incolla, compaia il mio nome — come se fossi collaboratore della testata che compie l’operazione.
Non collaboro con nessuna testata giornalistica, fatta eccezione per quelle con cui scrivo saltuariamente da anni commenti di economia.
La vignetta che accompagna il lancio di questo post è del vignettista portoghese Zez Vaz.
Purtroppo prof., da quello che si vede e si sente, nel nostro tessuto totale orami abbiamo perso tutti gli anticorpi controe autocrazie. Addirittura molti VORREBBERO, vivere in dittatura perché stanchi delle disfunzioni della democrazia. Molte volte ho provato a combattere queste idee malsane, ma ogni volta mi sembra di lottare contro i mulini a vento. A proposito di vento, oggi tira più forte dalla parte delle autocrazie per invertire la direzione aimé ci vorranno lacrime e sangue!! Grazie mille per le sue perle di saggezza.
*tessuto sociale