L’America non può fare a meno degli immigrati
Non è per timore delle proteste che Trump ha fatto marcia indietro sui raid dell’ICE nei luoghi di lavoro
Mentre le strade delle città americane si riempivano di manifestanti per il No Kings Day, Donald Trump ha improvvisamente ridimensionato l’escalation nelle deportazioni illegali degli immigrati. Secondo il New York Times, l’amministrazione ha ordinato agli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) di sospendere le retate nei luoghi di lavoro.
Cosa è successo? Trump ha forse avuto un moto di sensibilità democratica, leggendo nelle proteste il segnale del superamento di un limite?
Le manifestazioni — e prima ancora gli abusi dell’ICE e della strategia repressiva voluta dal Capo dello staff presidenziale Stephen Miller — hanno certamente contribuito a logorare il consenso del presidente.
La diffusione delle proteste ha coinciso con un brusco calo del tasso di approvazione delle politiche dell’immigrazione – uno dei temi su cui Trump solitamente riscuote maggiore successo tra gli elettori.
Secondo Nate Silver, che stima i tassi di gradimento del presidente su ciascun tema sulla base dei principali sondaggi nazionali, la popolarità delle politiche migratorie di Trump è diminuita sensibilmente, mentre il gradimento su economia, inflazione e dazi era già a livelli estremamente bassi.
Tuttavia, il gradimento del presidente non è sprofondato, pur restando tra i più bassi mai registrati nei mesi successivi all’elezione. Inoltre, Trump ha dato già prova di non curarsi della disapprovazione degli elettori, mostrando un’inquietante indifferenza nei confronti delle prossime tornate elettorali – come se fosse certo di non doverle affrontare.
Come sempre, è utile cercare nelle dinamiche dell’economia le ragioni profonde delle scelte politiche. Con le dovute cautele – considerando che il dietrofront di Trump potrebbe essere solo temporaneo e servire a gettare fumo negli occhi dei media – è probabile che la Casa Bianca sia consapevole dei gravi danni che l’aggressività delle retate e delle deportazioni sta infliggendo all’economia americana, in particolare in quei settori che rappresentano importanti serbatoi di consenso per il presidente.
Secondo stime recenti, negli Stati Uniti lavorano almeno dieci milioni di immigrati non autorizzati, pari a circa il 6% della forza lavoro complessiva. Gli “irregolari” sono impiegati soprattutto nei settori delle costruzioni, dell’agricoltura, della ristorazione e dell’industria alimentare, spesso in condizioni di lavoro precarie e con salari molto bassi. Le conseguenze della loro espulsione rischiano di essere devastanti su più fronti. Questi effetti rischiano di essere aggravati dal fatto che spesso le espulsioni non riguardano solo gli irregolari, ma anche loro colleghi che risiedono legalmente negli Stati Uniti, nel contesto di raid che prediligono la rapidità anziché la precisione.
Espulsioni, salari, occupazione e inflazione
L’evidenza empirica suggerisce che i lavoratori immigrati a bassa qualificazione non siano sostituibili con manodopera nativa: anziché in concorrenza, si trovano in una relazione di complementarità. I cittadini statunitensi, infatti, tendono a non candidarsi per i lavori più umili e faticosi svolti dagli irregolari. Di conseguenza, la loro espulsione in massa determinerebbe una brusca riduzione dell’offerta di lavoro, con un conseguente aumento dei salari che, a sua volta, farebbe lievitare i costi di produzione per le imprese e, infine, i prezzi per i consumatori.
Nel settore immobiliare, l’impatto rischia di essere particolarmente pronunciato: la carenza di manodopera causata dalle espulsioni è foriero di uno shock di offerta, in un contesto in cui la domanda di alloggi è destinata a rimanere sostanzialmente stabile. L’effetto sarebbe un aumento dei prezzi delle abitazioni, che colpirebbe con particolare durezza le famiglie a basso reddito.
L’aumento dei salari che potrebbe seguire alle espulsioni di massa non deve essere frainteso: non sarebbe un segnale di un mercato del lavoro più equo, ma il sintomo di uno squilibrio acuto tra domanda e offerta di manodopera. Va ricordato che i lavoratori immigrati e quelli nativi non sono intercambiabili e svolgono per lo più mansioni diverse e complementari. In assenza di una forza lavoro disponibile a colmare i vuoti lasciati dagli espulsi, le imprese sono costrette ad avviare costosi processi di ristrutturazione produttiva, che si concretizzano in un’intensificazione dell’automazione. Questa dinamica ha effetti negativi sull’occupazione. Gli immigrati non vengono sostituiti da nativi che percepiscono salari più alti, ma con le macchine. Il rafforzamento dell’automazione comporta un aumento dei costi e si estende anche a settori in cui la manodopera non è costituita esclusivamente da immigrati, con conseguenze negative per altre categorie di lavoratori meno qualificati, indipendentemente dalla loro nazionalità.
L’effetto immediato è un’ulteriore contrazione dell’occupazione, che alimenta un circolo vizioso: la perdita di posti di lavoro riduce la domanda aggregata, scoraggiando gli investimenti e producendo ripercussioni negative sull’intero sistema economico.
Nel tempo, il processo di aggiustamento tende a riportare i salari sui livelli iniziali, con l’eccezione di alcuni comparti in cui i lavoratori immigrati sono particolarmente difficili da sostituire. In quei settori soltanto, i salari potrebbero aumentare sensibilmente, accentuando la segmentazione del mercato del lavoro e determinando aumenti dei prezzi altrettanto significativi — soprattutto in settori essenziali per il benessere delle fasce più vulnerabili della popolazione, come l’alimentare e l’immobiliare.
Poiché si tratta per lo più di settori a basso valore aggiunto, le dinamiche salariali prodotte dalle espulsioni rischiano di orientare le scelte di investimento in capitale umano nella direzione sbagliata, riducendo gli incentivi a qualificarsi per lavori e comparti più produttivi, che offrono maggiori stimoli alla crescita economica e allo sviluppo.
Il risultato finale è una combinazione di stagnazione occupazionale e aumento dei prezzi — dinamica che potrebbe aggravare le già preoccupanti prospettive di stagflazione innescate dai dazi.
Per esempio, secondo uno studio di Chloe East, durante l’amministrazione Obama, per ogni undici espulsioni di immigrati irregolari si è registrata la perdita di almeno un posto di lavoro occupato da un cittadino statunitense.
Il Peterson Institute for International Economics ha stimato che, se anche solo un quarto delle espulsioni promesse da Trump venisse effettivamente attuato, si produrrebbe una riduzione permanente dell’occupazione pari allo 0,6%.
Per migliorare le condizioni del mercato del lavoro non servono le espulsioni, ma la regolarizzazione. Pur continuando a lavorare in posizioni entry level, con salari bassi e tutele minime, i lavoratori immigrati acquisirebbero uno status giuridico che li renderebbe meno vulnerabili e più stabili, con effetti positivi anche in termini di integrazione e responsabilità civica.
Regolarizzare significa non solo ridurre il rischio di shock sul mercato del lavoro, ma anche rafforzare la coesione sociale senza compromettere la competitività.
Un altro canale attraverso cui le espulsioni di massa possono incidere sull’economia è la contrazione dei consumi. Sebbene gli immigrati non autorizzati non abbiano accesso alla protezione sociale, contribuiscono alla domanda aggregata di beni e servizi attraverso i loro consumi quotidiani. La riduzione dei consumi generata da un’espulsione di massa degli irregolari causerebbe una diminuzione della domanda aggregata e, quindi, della domanda di fattori produttivi — incluso il lavoro — da parte delle imprese anche in settori che non impiegano manodopera immigrata.
TACO e i mercati
Epilogo: questo vuol dire che le deportazioni sono finite? Tutt’altro. È probabile che la linea di Miller — il teorico dei raid nei luoghi di lavoro per provocare proteste negli stati blu — sia stata accantonata a favore di approcci diversi, altrettanto autoritari ma meno dannosi per l’economia.
Aspettiamoci ancora immigrati in catene e deportazioni illegali, ma anche un’ondata di propaganda sulla presunta pericolosità sociale delle vittime. I luoghi di lavoro, nel frattempo, torneranno ad essere relativamente tranquilli. Ma Trump ha tutto l’interesse a inasprire gli scontri con i manifestanti, per alimentare la polarizzazione e invocare poteri straordinari.
Nuove retate sono attese nelle grandi città “blu”—ma con ogni probabilità al di fuori dei luoghi di lavoro. In un “Truth” post—che di per sé rappresenta l’ennesimo esempio di aggiramento delle regole nel governo delle agenzie federali—Trump ha ordinato all’ICE di intensificare le operazioni a Chicago e New York.
Se è vero che il presidente fa sempre un passo indietro (da cui il nomignolo che tanto lo infastidisce: TACO, acronimo di Trump Always Chickens Out) quando si trova davanti a una forza che non si lascia intimidire, il suo progetto autoritario e razzista non si è certo interrotto.
L’entità che ostacola più efficacemente i piani di Trump – stavolta sull’immigrazione – non sono i manifestanti, che Trump non vede l’ora di reprimere con la forza, ma, ancora una volta, i mercati.
PS: Questo post considera le ragioni per cui gli Stati Uniti non possono fare a meno degli immigrati presi di mira dai raid dell’ICE. Ma ci sono tante altre ragioni per cui gli immigrati sono indispensabili per l’economia americana. Primo tra tutti, l’apporto creativo, l’imprenditorialità e il contributo alla ricerca e lo sviluppo. A questi temi dedicherò altri post in futuro.
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