L'illusione protezionista: perché nessuno esce vincitore dalle guerre commerciali
I dazi di Trump e le rappresaglie commerciali renderanno l'economia globale più fragile. Ma l'obiettivo non è economico: è politico
Nei suoi discorsi, Donald Trump suggerisce spesso che i dazi consentiranno di finanziare la spesa pubblica e ridurre simultaneamente le tasse, grazie all’ingente afflusso di risorse dall’estero. Ora che le prime barriere commerciali verso Canada, Cina e Messico sono entrate in vigore, in attesa delle sanzioni promesse verso l’Europa, gli elettori americani si renderanno conto di quanto sia infondato e ingannevole il messaggio del presidente.
I dazi sono pagati dai contribuenti del paese che li impone, non da quelli esteri. L’impatto sull’economia degli Stati Uniti e dei loro partner commerciali sarà duro e si concretizzerà fondamentalmente nell’aumento dei prezzi, la diminuzione dell’occupazione e una perdita di competitività sistemica e persistente.
Non è un caso che la Fed di Atlanta abbia rivisto al ribasso le sue stime del Pil statunitense nel primo quadrimestre del 2025, prevedendo una diminuzione del tasso di crescita del 2,8%. Anche se la stima di Atlanta è in controtendenza rispetto a quella della Fed di New York (+2,9%), le previsioni pessimistiche trovano riscontro nel rapido declino di diversi indicatori, dalle vendite al dettaglio alla fiducia dei consumatori, riscontrato nei primi quaranta giorni dell’amministrazione Trump. È verosimile che la situazione di incertezza causata dalla guerra commerciale abbia spinto molte imprese e consumatori a sospendere gli ordini previsti.
Anche grazie all’esperienza dei dazi introdotti nel primo mandato di Trump, gli operatori sono consapevoli che la guerra commerciale danneggerà l’economia statunitense, e probabilmente si stanno preparando all’impatto.
Anzitutto, l’effetto dei dazi è paragonabile a quello di una tassa generalizzata sul consumo. I prezzi dei beni di importazione saliranno in misura pari all’ammontare del dazio. Tuttavia, saliranno anche i prezzi dei beni prodotti negli Stati Uniti, poiché la loro produzione implica l’uso di energia, materie prime e beni intermedi importati dall’estero. Per esempio, l’associazione dei produttori di automobili statunitensi ha annunciato che i dazi colpiranno tutte le imprese automobilistiche, che saranno costrette ad aumentare i prezzi del 25%. Per la precisione, tutte tranne una, Tesla, che usa beni intermedi provenienti soprattutto dalla Cina, per ora colpita da un dazio ridotto, e paesi non sanzionati dal protezionismo di Trump. In questo modo, l’azienda di Elon Musk acquisirà un vantaggio competitivo sui suoi concorrenti.
Un aspetto emblematico del ciclone che sta per investire i consumatori e le imprese statunitensi è la polarizzazione delle percezioni della guerra commerciale. Un’indagine campionaria sui sentimenti dei consumatori condotta periodicamente dall’Università del Michigan mostra che, mentre gli elettori democratici e indipendenti sono consapevoli del futuro aumento dei prezzi, gli elettori repubblicani non sembrano rendersene conto.
Anche le autorità monetarie mostrano di temere l’aumento dei prezzi. Il potenziale inflazionistico dei dazi è tra le ragioni che hanno indotto la Fed a interrompere il calo dei tassi di interesse dopo tre riduzioni consecutive – suscitando le ire del presidente.
Se i consumatori si preparano (o dovrebbero prepararsi) all’impatto con una nuova ondata inflazionistica, le imprese non hanno ragioni di ottimismo. I precedenti storici – compresi i dazi introdotti durante la prima amministrazione Trump – suggeriscono che l’aumento dei costi di produzione e la perdita di competitività neutralizzeranno interamente i vantaggi derivanti dall’aumento dei prezzi.
La situazione sarà aggravata dalle rappresaglie commerciali. Il Canada e la Cina hanno stabilito già, controvoglia, dazi uguali e contrari sui prodotti statunitensi. Il Messico annuncerà le sue contromisure domenica. L’Europa risponderà colpo su colpo alle sanzioni ripetutamente promesse da Trump. L’introduzione di dazi da parte dei partner commerciali degli Stati Uniti causerà una contrazione della domanda globale dei prodotti americani. Le imprese americane reagiranno aggiustando le decisioni di produzione. Ne risulterà una diminuzione della domanda di lavoro e, quindi, dell’occupazione, con effetti potenzialmente negativi anche per i salari.
Questo scenario drammatico potrebbe risparmiare le imprese vicine all’amministrazione. Durante il primo mandato di Trump, le imprese che hanno effettuato donazioni significative al Partito repubblicano hanno goduto di esenzioni dalle misure tariffarie. Questo eventuale privilegio consentirà alle imprese “amiche” di stabilire prezzi più bassi dei concorrenti e acquisire un vantaggio competitivo, per motivi politici slegati da qualsiasi ragione economica.
Nel lungo periodo, la competitività del sistema produttivo statunitense potrebbe peggiorare ulteriormente, perché i settori protetti dai dazi e le imprese amiche potranno attrarre risorse produttive – per esempio, lavoratori qualificati e capitale finanziario – indipendentemente dalla loro efficienza, penalizzando imprese più dinamiche che non sono protette dallo scudo tariffario o non hanno contribuito alle campagne di Trump.
A livello sistemico, la perdita di benessere provocata da tali dinamiche è difficile da calcolare. Stime del Peterson Institute for International Economics suggeriscono che l’aumento dei prezzi dovuto ai dazi infliggerà ai consumatori un costo annuo almeno pari all’1,8 del PIL statunitense.
Con le rappresaglie commerciali, Canada, Cina, Messico e, prossimamente, l’Europa soffriranno le stesse conseguenze negative – aumento dei prezzi, probabile calo dell’occupazione e perdita di competitività – che aspettano gli Stati Uniti. I paesi più esposti, tra cui l’Italia, affronteranno una contrazione significativa della domanda estera dei propri prodotti, con conseguenze deteriori sull’occupazione. La Cina soffrirà meno degli altri, anzitutto perché i dazi imposti nei suoi confronti sono per ora al 10%, notevolmente inferiori al 60% promesso in campagna elettorale. Inoltre, l’evidenza empirica mostra che, durante il primo mandato di Trump, la Cina non ha ridotto significativamente i prezzi per bilanciare l’effetto dei dazi. Invece, le imprese cinesi hanno approfittato della possibilità di delocalizzare molte attività nel Sud-Est Asiatico, soprattutto in Vietnam, per aggirare le barriere tariffarie.
Il gettito fiscale che sarà generato dai dazi, d’altro canto, è incerto. Le entrate nelle casse degli Stati coinvolti nella guerra commerciale dipenderanno da un insieme di fattori, tra cui le reazioni dei produttori e dei consumatori all’aumento dei prezzi nazionali (rispettivamente, l’elasticità dell’offerta e della domanda), le strategie di adattamento dei partner commerciali e l’effetto della perdita di competitività sulla crescita economica, a sua volta foriera di minori entrate fiscali. Secondo le stime del Peterson Institute, le nuove entrate non basteranno a finanziare la riduzione delle aliquote promessa da Trump, né gli ammortizzatori sociali che saranno necessari per attutire le conseguenze dell’aumento dei prezzi e della diminuzione dell’occupazione.
Sul piano fiscale, la regressività delle misure protezionistiche è evidente. In economia, una misura fiscale si considera regressiva quando colpisce più severamente le categorie sociali che hanno una minore capacità contributiva. Dazi generalizzati come quelli istituiti da Trump penalizzano coloro che dedicano una quota più ampia del proprio reddito al consumo di beni e servizi essenziali, cioè le classi meno abbienti, favorendo invece i più benestanti – che spendono solo una piccola quota delle proprie entrate per il consumo.
Nonostante lo scenario sia già preoccupante, la guerra commerciale rischia di inasprirsi già nelle prossime settimane. Dopo la notizia dell’inevitabile rappresaglia canadese, Trump ha annunciato che imporrà dazi aggiuntivi di ammontare pari a quelli canadesi, riferendosi spregiativamente al primo ministro Justin Trudeau come “governatore”, per suggerire che il Canada potrebbe diventare presto uno Stato americano.
La storia insegna che nessuno esce vincitore dalle guerre commerciali. Può darsi che Trump, sostanzialmente ancorato a una visione “mercantilista” dell’economia e le relazioni internazionali, non se ne renda conto. Tuttavia, è più plausibile che l’obiettivo della guerra sia esclusivamente politico. Nella conferenza stampa di ieri, Trudeau ha spiegato che, con i dazi, il presidente americano vuole indebolire il Canada per rendere più facile una futura annessione. Allo stesso modo, i danni inferti da eventuali dazi in Europa indebolirebbero ulteriormente la coesione del vecchio continente, favorendo il piano di spartizione in sfere di influenza che Trump condivide con il dittatore russo Vladimir Putin.
Tuttavia, l’obiettivo più immediato dell’assurda guerra commerciale cui stiamo assistendo sembra essenzialmente propagandistico. Se i mezzi di disinformazione su cui l’amministrazione ha un ferreo controllo riusciranno a convincere la classe media della bontà delle misure protezionistiche, Trump avrà guadagnato consenso – e gli oligarchi che lo circondano avranno conseguito significativi vantaggi economici – a danno delle categorie sociali meno abbienti, le stesse che sembrano costituire la sua base elettorale.
Sapremo solo nel 2028 se questo “tradimento” si ripercuoterà sull’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti. Sempre che, nel frattempo, il “Third Term Project: for Trump 2028 and Beyond” lanciato nell’assemblea annuale degli attivisti conservatori non si sia concretizzato, e con esso sia stata completata la costruzione del regime autoritario in corso negli Stati Uniti.