Gli effetti economici della guerra in Iran
Uno shock petrolifero si ripercuoterebbe su prezzi e consumi, con possibili effetti finanziari, ma tutto dipenderà dal controllo dello stretto di Hormuz
Domenica il Parlamento iraniano ha approvato la chiusura dello Stretto di Hormuz, che separa il Golfo Persico dal mare aperto. Lunedì l’Iran ha lanciato un attacco contro una base americana in Qatar. Secondo Farnaz Fassihi (corrispondente del New York Times presso le Nazioni Unite ed esperta di Iran), alcuni funzionari iraniani a conoscenza dei piani avrebbero dichiarato che Teheran aveva dato un preavviso degli attacchi per limitare al minimo le vittime. L’obiettivo, spiegano, era colpire simbolicamente gli Stati Uniti senza infliggere danni gravi, così da lasciare aperto uno spiraglio per una de-escalation.
La notizia più importante dal punto di vista economico, tuttavia, riguarda l’intenzione di chiudere Hormuz. Nel suo punto più stretto, il canale è largo appena due miglia, rendendo le navi in transito particolarmente esposte a mine marine, missili lanciati dalla costa e attacchi da parte di droni e piccole imbarcazioni.
Le implicazioni geopolitiche e strategiche dei bombardamenti israeliani e statunitensi – e delle rappresaglie iraniane su Israele e ora sulla base americana in Qatar – sono state già analizzate da commentatori più qualificati di me. Tuttavia, gli effetti economici della crisi restano incerti. Vale quindi la pena riflettere sulle possibili conseguenze economiche dell’ennesimo focolaio di crisi acceso in un anno già estremamente turbolento.
Verso uno shock petrolifero?
Secondo le informazioni disponibili, Israele ha colpito infrastrutture strategiche dell’industria energetica iraniana—oleodotti e impianti di estrazione di petrolio e gas—provocando danni significativi alle esportazioni.
L’Iran rappresenta circa il 4% della produzione mondiale di petrolio, di cui un terzo destinato all’export. L’interruzione delle esportazioni iraniane non avrebbe quindi un effetto particolarmente incisivo e duraturo sul prezzo globale, ma danneggerebbe sensibilmente la Cina, cui è diretta una quota consistente del petrolio in uscita.
La chiusura dello Stretto di Hormuz, invece, può avere conseguenze rilevanti sull’economia globale. Attraverso lo stretto transita non solo il petrolio iraniano, ma anche quello esportato da Arabia Saudita e Kuwait. Complessivamente, si tratta di un quinto del petrolio scambiato nel mondo. L’interruzione del traffico farebbe inevitabilmente salire i prezzi oltre i cento dollari al barile. Già dopo i primi attacchi israeliani, il rischio percepito di una chiusura ha fatto salire i prezzi nella fascia dei 70 dollari.
Secondo quanto riportato da Barron’s, Deutsche Bank stima che un blocco prolungato potrebbe spingere il prezzo del greggio fino a 120 dollari al barile. Tuttavia, Tom Holland e Tom Miller invitano alla cautela: chiudere lo Stretto di Hormuz è tutt’altro che semplice. L’Iran ci aveva già provato negli anni ’80, durante la cosiddetta “guerra delle petroliere”, senza riuscirci. E anche qualora ci riuscisse oggi, sarebbe una mossa probabilmente controproducente.
Anzitutto, Teheran non ha interesse ad aprire nuovi fronti di ostilità con gli altri Stati del Golfo. Inoltre, la gran parte del petrolio che attraversa lo Stretto è destinata all’Asia, in particolare alla Cina, che importa da questa regione circa metà del proprio fabbisogno. “L’Iran non può permettersi di inimicarsi uno dei suoi principali alleati”, osservano Holland e Miller.
Va poi considerato che gli Stati Uniti dispongono delle risorse militari per garantire la navigabilità dello Stretto, sia bonificando le acque da eventuali mine, sia neutralizzando eventuali attacchi (mi astengo qui dal valutare l’opportunità politica di un ulteriore coinvolgimento militare americano).
Inoltre, l’offerta globale di petrolio è oggi più diversificata rispetto al passato, grazie all’espansione della produzione statunitense (mediante la fratturazione idraulica nota come fracking). Infine, parte del petrolio del Golfo potrebbe essere esportato anche via terra, attraverso oleodotti sauditi che aggirano lo Stretto.
In sintesi, uno shock petrolifero non è affatto inevitabile. Gli effetti economici di medio periodo dipenderanno dalla durata della guerra, dall’intensità del coinvolgimento americano e da quanto sarà effettiva e prolungata l’eventuale chiusura dello Stretto di Hormuz. Se le petroliere saudite e kuwaitiane continuassero ad attraversare il passaggio senza ostacoli, e se il conflitto si esaurisse rapidamente, è plausibile che il prezzo del petrolio rientri con altrettanta rapidità nei livelli precedenti alla crisi, senza effetti duraturi sull’inflazione.
Tuttavia, le guerre sono imprevedibili, facili da iniziare e molto difficili da fermare. Per questo vale la pena prendere sul serio anche lo scenario peggiore — quello in cui il conflitto si prolunga e il traffico in uscita dal Golfo Persico subisce una contrazione significativa.
Gli effetti sulle famiglie
Nel breve periodo, la domanda di energia è rigida e risponde poco alle variazioni di prezzo. Una contrazione dell’offerta, quindi, si traduce automaticamente in un aumento dei prezzi senza che i consumi si riducano in modo significativo. In pratica, l’aumento del prezzo del petrolio erode il reddito disponibile delle famiglie: chi deve usare l’auto per andare al lavoro, riscaldare casa o accendere il condizionatore, non può fare a meno di farlo—ma dovrà spendere di più.
Se il reddito nominale resta invariato, l’aumento della spesa energetica costringe le famiglie a tagliare altri consumi, soprattutto quelli discrezionali, a meno di poter attingere ai risparmi per attutire l’impatto dello shock.
Le famiglie meno abbienti sono le più esposte: per loro, l’energia rappresenta una quota più grande della spesa per consumi, e la spesa per consumi rappresenta una quota maggiore del reddito complessivo. Inoltre, dispongono di meno risparmi da utilizzare come cuscinetto. Al contrario, per le famiglie più ricche, l’aumento dei prezzi energetici ha un effetto trascurabile sul tenore di vita.
Gli effetti sulle imprese
L’energia è un input cruciale non solo nell’industria manifatturiera e nelle costruzioni, ma anche in molti comparti dei servizi, in particolare nei trasporti. Quando il prezzo dell’energia aumenta, crescono i costi di produzione.
La reazione delle imprese a questo shock può variare sensibilmente in base alla struttura della produzione, alla dinamica della domanda e alle condizioni del mercato del lavoro. Alcune imprese potrebbero scegliere di ridurre l’attività produttiva, comprimendo la domanda di lavoro e, quindi, l’occupazione. Altre potrebbero assorbire parte del rincaro nei margini di profitto, pur di non perdere competitività. Ma in presenza di rigidità nei mercati dei beni e servizi e dei fattori di produzione, la risposta più frequente è la traslazione dell’aumento dei costi sui prezzi finali, con effetti inflazionistici.
La riduzione della domanda aggregata, dovuta al calo dei consumi e all’eventuale aumento della disoccupazione, può a sua volta deteriorare le aspettative di profitto, frenare gli investimenti e alimentare il rischio di stagflazione: la combinazione di crescita stagnante, disoccupazione elevata e tensioni inflazionistiche.
Inflazione e tassi di interesse
In genere, le tensioni nel Golfo Persico tendono a far salire il prezzo del petrolio. Tuttavia, una volta rientrata la crisi, i prezzi spesso tornano ai livelli precedenti, attenuando progressivamente gli effetti economici dello shock.
Al momento, il rischio di stagflazione sembra contenuto. Secondo quanto riportato da Simon Nixon sul suo Substack, Goldman Sachs stima che l’aumento del 15% del prezzo del petrolio registrato da maggio potrebbe ridurre la crescita dell’area euro di circa 0,1–0,2 punti percentuali nel prossimo anno, e aumentare l’inflazione complessiva di circa 0,4 punti. Nel caso di una grave interruzione nel traffico marittimo attraverso lo Stretto di Hormuz, l’impatto salirebbe a –0,4 punti di crescita e +1,8 punti di inflazione
In uno scenario di questo tipo, le banche centrali si troverebbero davanti a un bivio: ignorare l’aumento temporaneo dell’inflazione e “guardare oltre” lo shock, oppure intervenire subito per prevenire effetti di secondo livello, come rincorse salariali e spirali inflazionistiche. Nel caso della Federal Reserve, la decisione sarebbe ulteriormente complicata dagli effetti inflazionistici dei dazi di Trump—e dalle sue altre politiche economiche, comprese le deportazioni di massa.
Epilogo
Nelle prossime ore capiremo se l’Iran intenda davvero procedere con il blocco dello Stretto di Hormuz. E nei prossimi giorni sarà più chiaro quanto un eventuale blocco possa essere sostenuto di fronte alla pressione militare degli Stati Uniti, e a quella economica e diplomatica esercitata dalla Cina e dai paesi del Golfo.
Se il blocco dovesse realizzarsi e durare nel tempo, governi e banche centrali—ma ancor prima famiglie e imprese—potrebbero trovarsi a fronteggiare uno scenario di stagflazione, fatto di inflazione in risalita e crescita in calo. Uno scenario che si sommerebbe agli effetti globali di Maganomics, complicando ulteriormente le prospettive dell’economia Mondiale, e peggiorando la qualità delle nostre vite, nella seconda metà dell’anno.
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